La ricerca della felicità
«Una delle più grandi difficoltà che l’umanità deve superare oggi è insita nel riconoscere la differenza tra la felicità e il semplice piacere».
Fin dal principio della storia l’umanità si è sempre impegnata nella ricerca della felicità. Ritengo sia giusto dire che moi, per la maggior parte, diamo molta importanza a quello che, a nostro avviso, porterà alla felicità o alla gioia noi stessi oltre che gli altri.
Asserisco che questo è un fine lodevole. Il Signore ha detto infatti che «gli uomini sono per poter conoscere la gioia» (2 Nefi 2:25).
I padri fondatori della nostra nazione consideravano la felicità cosa di tale importanza che vollero metterla accanto alla vita e alla libertà. Mi riferisco, naturalmente, alla Dichiarazione di indipendenza:
«Noi riteniamo evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dotati dal loro Creatore di certi diritti inalienabili, tra i quali vi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità».
Cos’è la felicità? Dove la troviamo? Come la otteniamo? Ricordo che qualche tempo fa lessi i risultati di un’indagine nazionale, che cercava di riassumere le risposte alla domanda su che cosa di porta alla felicità.
Non ricordo tutti i dettagli di quella indagine, ricordo però che la maggior parte delle persone riteneva che il denaro fosse una parte importante della felicità. Tuttavia le ricerche dell’autore dell’indagine indicavano che il denaro da solo raramente, o forse mai, porta alla vera felicità.
Due pensieri mi vengono subito a mente. Ricordo un discorso tenuto dal presidente David O. McKay. Egli faceva riferimento a una dichiarazione di John D. Rockefeller, che era allora uno degli uomini più ricchi del mondo – che sembrava sempre afflitto dal mal di stomaco. Si diceva che egli avesse detto: «Preferirei poter consumare un buon pasto che avere un milione di dollari». Poi, strizzendo un occhio, il presidente McKay osservò: «Naturalmente, quando lo disse, aveva già un milione di dollari».
Do subito atto che è importante avere denaro a sufficienza per le nostre necessità ma, oltre a questo, il denaro ha ben poco a che fare con la vera felicità. Spesso sono il lavoro e il sacrificio compiuti per ottenere il denaro per uno scopo meritevole che danno più soddisfazione di ogni altra cosa.
Nella storia da lui scritta, mio padre parla delle esperienze vissute dalla nonna a Brigham City, Utah, sul finire del 1800. La famiglia era povera, essendo emigrata dalla Danimarca con poco più dei vestiti che avevano addosso. La nonna desiderava molto avere un paio di scarpe da indossare in occasioni speciali. Per realizzare questo obiettivo ci volle un’intera estate di lavoro, dedicato a raccogliere le bacche e a badare ai bambini, poiché il denaro era scarso e la manodopera a poco prezzo. Ma la gioia che la nonna provò quando ebbe quelle scarpe è indescrivibile, poiché non soltanto poteva indossarle lei, ma anche sua madre. Infatti, si erano messe d’accordo in modo che la nonna poteva indossare le scarpe per andare alla Scuola Domenicale la mattina, e poi sua madre le indossava per andare alla riunione sacramentale la sera.
Le parole di William George Jordan sono molto istruttive a questo proposito:
«La felicità non sempre richiede il successo, la prosperità o il conseguimento. È spesso la gioia della lotta animata dalla speranza, la consacrazione dello scopo e dell’energia a un buon fine. La vera felicità affonda sempre le radici nell’altruismo – il suo fiore nasce da un amore di qualche specie» (The Crown of Individuality, 2a ed., New York: Fleming H. Revell Co., 1909, pagg. 78-79).
Una delle più grandi difficoltà che l’umanità deve superare oggi è insita nel riconoscere la differenza tra la felicità e il semplice piacere. Satana e le sue forze sono diventate estremamente efficienti nel loro sforzo per convincere le persone che il piacere deve essere l’obiettivo più ricercato. Egli promette astutamente che, ovunque si trovi, il piacere porterà alla felicità.
Gli schermi della televisione e del cinema sono pieni di chiari messaggi che incoraggiano e persuadono giovani e vecchi a dar libero sfogo alle loro passioni per conoscere la felicità. I risultati di questa condotta avventata dovrebbero essere ben evidenti quando osserviamo il suo già immenso costo sociale e psicologico che continua a salire. La crescente incidenza di gravidanze tra le adolescenti, aborto, stupro, molestie ai minori, molestie sessuali, aggressioni, tossico-dipendenza, malattia, alcolismo e case divise sono la conseguenza di questa persuasione. E le allarmanti statistiche continuano a renderne testimonianza, ma con poco o nessun effetto.
Anni fa l’anziano James E. Talmage descrisse tanto accuratamente quello che stava accadendo, che è quasi come se scrivesse del nostro tempo. Cito le sue parole:
«La nostra è un’epoca improntata alla ricerca del piacere, e gli uomini perdono il loro equilibrio mentale nella pazza corsa alle sensazioni, che non fanno che eccitare e deludere. In questi tempi di contraffazioni, adulterazioni e vili imitazioni, il diavolo è più occupato che mai in ogni altro momento della storia umana a fabbricare piaceri, sia vecchi che nuovi, e questi piaceri egli offre in vendita sotto le vesti più attraenti possibili, etichettandole falsamente: ‹felicità›. In quest’arte che distrugge l’anima egli è senza pari, avendo come ha alle spalle secoli di esperienza e di pratica, e con la sua abilità egli controlla il mercato. Egli ha imparato tutti i trucchi del mestiere e sa bene come attirare l’occhio e destare il desiderio dei suoi clienti. Egli avvolge la sua mercanzia in carta colorata e nastri d’argento, e le moltitudini si affollano davanti al suo banco di vendita, spingendosi e schiacciandosi l’un l’altro nella frenesia dell’acquisto.
Seguite uno degli acquirenti quando esce dal negozio, contento con la sua preda colorata, e osservatelo mentre apre il pacco. Cosa trova sotto la carta colorata? Si aspettava la fragrante felicità, ma scopre soltanto una marca inferiore di piacere, il cui fetore è nauseante» (Improvement Era, 17:2, pagg. 172-173).
È significativo il fatto che l’anziano Talmage, scrivendo molti anni fa, poteva tanto eloquentemente afferrare le condizioni di questa nostra epoca in una maniera che è forse ancora più efficace oggi di quanto lo era allora. Alcuni possono asserire che dobbiamo trovare una certa misura di conforto ascoltando le preoccupazioni che animavano i nostri fratelli ieri, e ragionare quindi che le cose andavano male allora come oggi. Preferisco non guardare la situazione sotto questa luce. Asserisco invece che le parole dell’anziano Talmage avrebbero dovuto servire come un ammonimento, dal quale avremmo potuto imparare molto di più di quanto abbiamo fatto come nazione.
La vera gioia e felicità sono il frutto del vivere in maniera tale che il nostro Padre celeste si compiaccia di noi. Nella sezione 52 di Dottrina e Alleanze il Signore dice che Egli ci darà «un modello in ogni cosa», affinché non siamo ingannati; «poiché Satana è fuori sulla terra e gira di qua e di là, seducendo le nazioni» (v. 14).
Questo modello è il vangelo di Gesù Cristo nella sua pienezza, il Vangelo che siamo tanto fortunati di avere.
Se vogliamo essere felici, vi sono delle lezioni che dobbiamo invariabilmente imparare mentre ci troviamo in questa vita. Possiamo impararle sia con gioia che con dolore. Penso alle parole di Giacobbe, fratello di Nefi, da lui scritte tanti secoli fa:
«Ora, noi ci rallegriamo di questo; e lavoriamo diligentemente per incidere queste parole su tavole, sperando che i nostri diletti fratelli ed i nostri figli le riceveranno con cuore riconoscente, e le leggeranno per poter apprendere con gioia, e non con dolore …» (Giacobbe 4:3; corsivo dell’autore).
Non è forse vero? Non vi sono certi principi e verità fondamentali che dobbiamo imparare se vogliamo progredire in questa vita ed essere felici? E noi o le impariamo con gioia, facendo ciò che è giusto, o le impariamo con dolore o mediante esperienze che ci portano dolore. Non possiamo violare i comandamenti di Dio ed essere felici. Dobbiamo ricordare il passo delle Scritture, già citato durante questa conferenza, che «la malvagità non fu mai felicità» (Alma 41:10).
Ricordo che da bambino sentivo dire a mio padre, proprio prima di impartire un ben meritato castigo corporale a uno dei suoi figli, ossia a me: «Se non vuoi ascoltare, allora dovrai sentire».
Se tutti ascoltassimo di più, non sarebbe necessario dover sentire tanto spesso in questo senso.
Ed ora consentitemi di rivolgermi ai giovani per qualche minuto. Vogliamo che siate felici. Noi genitori, nonni, dirigenti del sacerdozio e consulenti ci preoccupiamo molto dinanzi al rilassamento morale che comincia a prevalere ed è evidentemente tanto accettato in questo come in tanti altri paesi del mondo.
Di conseguenza queste preoccupazioni si traducono in sempre più frequenti discussioni con voi, in richieste di maggiori dettagli sugli appuntamenti, le attività e le feste e, in alcuni casi, anche qualche restrizione per quanto riguarda certi luoghi, programmi e amicizie.
Può sembrarvi che siamo troppo severi con queste esortazioni a tenere a freno le vostre passioni, ad evitare ogni forma di pornografia, a osservare la Parola di Saggezza, ad evitare luoghi e situazioni inadatti, a sviluppare e mantenere le vostre elevate norme morali, ad adottare un acuto senso di responsabilità personale, a guardare al di sopra della folla e ad essere disposti a rimanere soli quando i vostri principi lo richiedono.
Sì, possiamo sembrare troppo preoccupati, ma consentitemi di chiedervi questo: «Supponete di vedere un vostro fratellino che sta per scambiare la sua bicicletta con una granita in un caldo giorno d’estate. Oppure supponete di vedere un bambino che, su gambe ancora incerte, si avvia verso una strada piena di traffico o verso un corso d’acqua dalla rapida corrente, senza rendersi conto dei pericoli che sono tanto evidenti per voi, per la vostra età ed esperienza.
Naturalmente, in entrambi i casi, vorreste dare il vostro aiuto. Non farlo sarebbe irresponsabile.
Per lo stesso motivo i vostri genitori e dirigenti sentono la grande responsabilità di consigliarvi e ammonirvi sui pericoli di cui forse non vi rendete pienamente conto, ma che potrebbero avere conseguenze disastrose fisicamente, mentalmente e spiritualmente.
Cos’è dunque la felicità? Per quali aspetti differisce dal semplice piacere? Di nuovo, torno alle parole dell’anziano Talmage:
«La felicità è vero cibo: sano, nutriente e dolce; rafforza il corpo e genera l’energia necessaria per l’azione fisica, mentale e spirituale. Il piacere è soltanto uno stimolante ingannatore che, come le bevande alcoliche, induce una persona a pensare di essere forte quando in realtà ne è indebolita; gli fa credere di stare bene mentre in realtà è già colpita da una malattia mortale.
La felicità non lascia l’amaro in bocca e non è seguita da una reazione deprimente, non richiede pentimento, non porta al rimpianto, non comporta il rimorso; il piacere troppo spesso rende necessario il pentimento, la contrizione e la sofferenza, e se in esso si indulge all’estremo porta alla degradazione e alla distruzione.
La vera felicità si ricorda sempre con gioia, ci rammenta sempre il bene originale; un momento di piacere illecito può lasciare un dardo pungente che, come una spina nella carne, è una sempre presente fonte di angoscia.
La felicità non è sinonimo di leggerezza, né è un’allegria frivola. Scaturisce dalle più profonde sorgenti dell’anima e spesso è accompagnata dalle lacrime. Non siete mai stati tanto felici da piangere? Io sì» (Improvement Era, 17:2, pag. 173).
Oh, se potessimo diventare come le persone a cui si fa riferimento nel Libro di Mormon:
«E avvenne che non vi erano affatto contese nella loro terra, per via dell’amor di Dio di cui erano riempiti i cuori del popolo.
E non esistevano gelosie, né lotte, né tumulti, né adulterii, né menzogne, né omicidi, né alcuna lascivia; e sicuramente non poteva esservi popolo più felice tra tutti i popoli che erano stati creati dalla mano di Dio» (4 Nefi 15-16). Nel nome di Gesù Cristo. Amen.