2000–2009
All’altezza della fiducia concessa con il sacerdozio
Ottobre 2006


19:48

All’altezza della fiducia concessa con il sacerdozio

È con il fare—non soltanto con il sognare—che aiutiamo gli altri, che li sosteniamo e che salviamo la loro anima.

Alcune settimane fa, ad una riunione di digiuno e testimonianza nel nostro rione, un ragazzino in una delle ultime file prese il coraggio di alzarsi per la testimonianza. Provò tre o quattro volte ad alzarsi, e poi si sedeva; finché giunse il suo turno. Si drizzò le spalle, camminò coraggiosamente lungo la cappella fino al podio, salì i due gradini per arrivare al livello del pulpito, mise le mani sul pulpito, guardò la congregazione, sorrise… e poi tornò indietro lungo tutta la cappella per sedersi vicino a suo papà e alla sua mamma. Stasera guardo voi in questa vasta congregazione nel Centro delle conferenze, penso a coloro che ci stanno ascoltando, e riesco a capire pienamente quello che ha fatto quel ragazzino.

Fratelli miei, sono onorato di potervi parlare oggi. Ho pensato molto a ciò che avrei dovuto dirvi. Mi è venuto alla mente un bel versetto in Ecclesiaste: «Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell’uomo» (Ecclesiaste 12:13). Provo tanto amore e rispetto per questa nobile parola: dovere.

Il leggendario generale Robert E. Lee, che acquistò fama durante la guerra di secessione americana, dichiarò: «Dovere è la parola più sublime della nostra lingua… Non si può fare di più e non si dovrebbe mai desiderare di fare di meno» (John Bartlett, Familiar Quotations [1968], 620).

Ognuno di noi ha dei doveri associati al sacro sacerdozio che detiene. Sia che deteniamo il Sacerdozio di Aaronne o il Sacerdozio di Melchisedec, ci si aspetta molto da noi. Il Signore stesso riassunse così le nostre responsabilità quando, in una rivelazione sul sacerdozio, disse: «Pertanto, che ora ognuno con ogni diligenza apprenda il suo dovere e impari ad agire nell’ufficio a cui è nominato» (DeA 107:99).

Spero con tutto il cuore e con tutta l’anima che ogni giovane che riceve il sacerdozio faccia onore ad esso e si mostri all’altezza della fiducia che gli viene concessa quando tale sacerdozio gli è conferito.

Cinquantuno anni fa udii William J. Critchlow junior, a quel tempo presidente del Palo di Ogden Sud e che in seguito divenne Assistente al Quorum dei Dodici, parlare ai fratelli nella sessione generale del sacerdozio di una conferenza. Egli raccontò una storia che parlava della fiducia, dell’onore e del dovere. Vorrei raccontarvi quella storia. È una lezione semplice che si applica a noi oggi come ai fratelli di quel tempo.

«[Il giovane] Rupert sedeva sul lato della strada e osservava un insolito numero di persone passare davanti a lui in gran fretta. Alla fine riconobbe un amico. ‹Dove andate con tanta fretta?›, gli chiese.

L’amico si fermò. ‹Non hai sentito?›

‹Non so nulla›, rispose Rupert.

‹Il re ha smarrito lo smeraldo reale›, continuò l’amico. Ieri ha partecipato al matrimonio di un nobile e aveva lo smeraldo appeso alla collana d’oro che portava al collo. Durante la cerimonia lo smeraldo si è staccato dalla collana. Tutti lo stanno cercando, poiché il re ha offerto una grande ricompensa… a chi lo ritroverà. Vieni, presto, andiamo›.

‹Non posso venire senza chiederlo alla nonna›, disse Rupert.

‹Allora non posso aspettarti. Voglio trovare lo smeraldo›, replicò l’amico.

Rupert si affrettò a tornare alla sua capanna al limitare del bosco per chiedere il permesso alla nonna. ‹Se riuscirò a trovare lo smeraldo, potremo lasciare questa capanna tanto umida e acquistare un appezzamento di terreno più in alto›, implorò.

La nonna, però, scosse il capo. ‹Come farebbero le pecore? Sono già inquiete nell’ovile e aspettano di essere portate al pascolo. Non dimenticare poi di portarle ad abbeverarsi quando il sole è alto›.

Molto deluso, Rupert portò le pecore al pascolo e a mezzogiorno le condusse ad abbeverarsi al ruscello che scorreva nel bosco. Si sedette sopra un masso che stava accanto al ruscello. ‹Vorrei tanto avere la possibilità di cercare lo smeraldo del re›, pensava. Quando si voltò per guardare il fondo sabbioso del ruscello non credette ai suoi occhi. Che cos’era? Non era possibile! Saltò nell’acqua e con dita tremanti afferrò un oggetto di colore verde al quale era ancora attaccato un pezzo di collana d’oro. ‹Lo smeraldo del re!›, gridò. ‹Deve essere caduto dalla catena quando il re è passato al galoppo sul ponte che attraversa il ruscello. La corrente ha certamente trascinato qui lo smeraldo›.

Con gli occhi lucenti Rupert corse dalla nonna per raccontarle la miracolosa scoperta. ‹Dio ti benedica, ragazzo mio›, ella disse. ‹Tu, però, non lo avresti mai trovato se non avessi fatto il tuo dovere di pascolare le pecore›. Rupert sapeva che era vero» (Conference Report, ottobre 1955, 86).

«Fate il vostro dovere; fate del vostro meglio. Lasciate che il Signore faccia il resto!» (Henry Wadsworth Longfellow, «The Legend Beautiful», The Complete Poetical Works of Longfellow [1893], 258).

A voi che siete o siete stati presidenti di quorum, vorrei dirvi che il vostro dovere non si esaurisce quando siete rilasciati. Il legame con i componenti del quorum e il vostro dovere verso di loro continua per tutta la vita.

Quando ero un insegnante del Sacerdozio di Aaronne, fui chiamato come presidente del quorum. Con le esortazioni e l’aiuto di un consulente coscienzioso e ispirato, lavorai diligentemente per assicurarmi che tutti i ragazzi partecipassero con regolarità alle riunioni. L’opera non fu facile con due di loro, ma, grazie alla perseveranza e all’amore e un po’ di persuasione, iniziarono a venire alle riunioni e a partecipare alle attività di quorum. Tuttavia, dopo un po’ di tempo, essi lasciarono il rione per studiare e lavorare, ripiombando nuovamente nell’inattività.

Nel corso degli anni ho visto entrambi questi cari amici in varie occasioni. Ogni volta che ciò accade, gli metto la mano sulla spalla e ricordo loro: «Sono ancora il vostro presidente di quorum e non vi lascerò in pace. Siete importanti per me e voglio che godiate i benefici che derivano dall’attività nella Chiesa». Essi sanno che voglio loro bene e che non mi arrenderò mai.

Per quelli di noi che detengono il Sacerdozio di Melchisedec il privilegio di fare onore alla nostra chiamata è sempre presente. Siamo pastori che vegliano su Israele. Le pecore affamate alzano lo sguardo verso di noi, pronte a ricevere il nutrimento del pane della vita.

La sera di Halloween di molti anni fa avevo avuto il privilegio di aiutare una persona che aveva temporaneamente perso la strada e che aveva bisogno di una mano per ritornare sulla retta via. Stavo tornando a casa dall’ufficio piuttosto tardi. Cercavo di sfuggire ad Halloween, lasciando che mia moglie si occupasse dei visitatori. Mentre passavo davanti al St. Mark’s Hospital di Salt Lake City, mi venne in mente che il mio caro amico Max era ricoverato lì. Quando ci eravamo conosciuti anni prima, avevamo scoperto di essere cresciuti nello stesso rione, anche se in periodi diversi. Quando nacqui, Max e i suoi genitori si erano trasferiti in un altro rione.

Quella sera di Halloween parcheggiai ed entrai nell’ospedale. Quando mi fermai al banco informazioni per sapere il numero della stanza, mi fu detto che quando Max si era registrato, per quanto riguardava la religione, non aveva indicato la chiesa «mormone», bensì un’altra.

Entrai nella sua stanza e lo salutai. Gli dissi quanto fossi fiero di essere suo amico e quanto gli volessi bene. Parlammo del suo lavoro in banca e come direttore di orchestra. Scoprii che era stato offeso da un paio di commenti, così aveva deciso di frequentare un’altra chiesa. Gli dissi: «Max, tu detieni il Sacerdozio di Melchisedec. Stasera vorrei impartirti una benedizione». Acconsentì, così la benedizione fu data. Mi disse poi che anche sua moglie Bernice era molto malata e che si trovava, di fatto, in una stanza attigua. Su mio invito, Max si unì a me nell’impartirle una benedizione. Mi chiese di aiutarlo e io lo guidai. Unse il capo della moglie. Ci furono lacrime e abbracci dopo che confermai l’unzione insieme a Max; le sue mani sul capo della moglie con le mie, rendendo indimenticabile quella sera di Halloween.

Nell’uscire dall’ospedale, mi fermai al bancone e dissi al responsabile che, con il permesso di Max e di sua moglie, il documento avrebbe dovuto essere modificato riportando l’appartenenza alla Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni. Attesi con attenzione che il documento fosse aggiornato.

Ora i miei amici Max e Bernice si trovano entrambi dall’altra parte del velo, ma negli ultimi anni di vita furono attivi, felici e ricevettero le benedizioni che accompagnano la testimonianza del Vangelo e la frequenza in chiesa.

Fratelli, il nostro compito è raggiungere coloro che, per qualsiasi motivo, hanno bisogno del nostro aiuto. Le difficoltà non sono insormontabili. Stiamo svolgendo un incarico del Signore, pertanto abbiamo diritto al Suo aiuto. Dobbiamo, però, provarci. Dall’opera teatrale Shenandoah traggo questi versi che ispirano: «Se non tentiamo, allora non facciamo nulla; e se non facciamo nulla, allora perché siamo qui?»

Abbiamo la responsabilità di condurre una vita tale che, quando giunge la chiamata d’impartire una benedizione del sacerdozio o di prestare aiuto in qualche modo, siamo degni di farlo. Ci è stato detto che non possiamo veramente sfuggire gli effetti della nostra influenza personale. Dobbiamo essere certi che la nostra influenza sia positiva e edificante.

Le nostre mani sono pure? È puro il nostro cuore? Guardando indietro nel tempo, nelle pagine dei libri di storia, le parole del re Dario, in punto di morte, ci offrono una lezione di dignità. Attraverso i debiti riti, Dario era stato riconosciuto come legittimo re d’Egitto. Il suo rivale, Alessandro il Grande, era stato dichiarato legittimo figlio di Amon. Anch’egli era faraone. Alessandro, trovato lo sconfitto Dario in punto di morte, gli impose le mani sul capo per guarirlo, ordinandogli di alzarsi e di riassumersi il suo potere di re, concludendo: «Io giuro a te, Dario, per tutti gli dèi, che faccio queste cose sinceramente e senza falsità».

Dario rispose con un leggero rimprovero: «Alessandro, ragazzo mio… pensi di poter toccare il cielo con quelle tue mani?» (Adattato da Hugh Nibley, Abraham in Egypt [1981], 192).

La chiamata a svolgere il nostro dovere può arrivare in silenzio, quando noi che deteniamo il sacerdozio rispondiamo agli incarichi che riceviamo. Il presidente George Albert Smith, quel dirigente modesto ed efficace, ottavo presidente della Chiesa, dichiarò: «È prima di tutto vostro compito imparare ciò che il Signore vuole e poi, attraverso il potere e la forza del Suo santo sacerdozio, magnificare in tale maniera la vostra chiamata in presenza dei vostri simili, affinché la gente sia contenta di seguirvi» (Conference Report, aprile 1942, 14).

E in che modo una persona magnifica una chiamata? Semplicemente svolgendo il servizio pertinente.

Fratelli, è con il fare—non soltanto con il sognare—che aiutiamo gli altri, che li sosteniamo e che salviamo la loro anima. Giacomo disse: «Siate facitori della Parola e non soltanto uditori, illudendo voi stessi» (Giacomo 1:22).

Esorto tutti coloro che si sono riuniti qui oggi per partecipare a questa riunione del sacerdozio a compiere un rinnovato sforzo per qualificarsi a godere della guida del Signore. Nel mondo vi sono molti che chiedono e pregano per avere un aiuto. Vi sono coloro che si sentono scoraggiati, coloro che vorrebbero tornare indietro, ma che non sanno da che parte iniziare.

Ho sempre creduto nella validità del detto: «Le più grandi benedizioni di Dio sono sempre conferite dalle mani che Lo servono quaggiù» (Whitney Montgomery, «Revelation», Best-Loved Poems of the LDS People, ed. Jack M. Lyon e altre [1996], 283). Facciamo sì che le nostre mani siano pronte ad aiutare, pure e disposte a servire, affinché possiamo dare quello che il Padre celeste vuole che gli altri ricevano da Lui.

Concludo con un esempio personale. Una volta avevo un carissimo amico, il quale sembrava afflitto da più difficoltà e frustrazioni di quanto fosse in grado di sopportare. Infine, malato terminale, fu ricoverato in un ospedale. Non sapevo nulla di questo.

Io e mia moglie eravamo andati in quell’ospedale per visitare un’altra persona ammalata. Quando uscimmo e stavamo avviandoci dove era parcheggiata la nostra automobile, sentii la distinta impressione di ritornare a chiedere se il mio amico Hyrum era per caso un paziente di quell’ospedale. Un controllo al banco informazioni confermò che Hyrum era davvero ricoverato là da molte settimane.

Andammo alla sua stanza, bussammo alla porta e l’aprimmo. Non eravamo preparati alla vista che ci aspettava: c’erano fiori e palloncini dappertutto; sulla parete, bene in mostra, c’era un poster sul quale erano scritte le parole «Buon compleanno, papà». Hyrum sedeva nel letto d’ospedale circondato dai familiari. Quando ci vide disse: «Fratello Monson! Come sapeva che oggi è il mio compleanno?» Sorrisi, ma non risposi alla domanda.

Gli astanti che detenevano il Sacerdozio di Melchisedec si disposero attorno al loro padre e nonno, e mio amico, e gli impartirono una benedizione.

Ci furono lacrime, sorrisi di gratitudine e affettuosi abbracci. Mi chinai verso Hyrum e gli sussurrai: «Ricorda le parole del Signore poiché esse ti sosterranno. Egli ha promesso: ‹Non vi lascerò orfani; tornerò a voi›» (Giovanni 14:18).

Il tempo viene scandito. Il dovere segue il ritmo di tale movimento. Il dovere non svanisce né diminuisce. I conflitti catastrofici vanno e vengono, ma la guerra mossa contro l’anima degli uomini continua senza tregua. Come il suono di una tromba, la parola del Signore arriva a voi e a me, e ai detentori del sacerdozio dappertutto. Ripeto tale parola: «Pertanto, che ora ognuno con ogni diligenza apprenda il suo dovere e impari ad agire nell’ufficio a cui è nominato» (DeA 107:99).

Fratelli, impariamo il nostro dovere, manteniamoci sempre degni di assolverlo e, facendolo, seguiamo le orme del Maestro. Quando Gli giunse la chiamata al dovere, Egli rispose: «Padre, sia fatta la tua volontà, e sia tua la gloria per sempre» (Mosè 4:2). Prego umilmente che noi possiamo fare altrettanto. Nel nome di Gesù Cristo. Amen.