Un potere permanente
Rinunciare a tutto per svolgere una missione sembrava una cosa giusta finché tutto non andò per il verso sbagliato. Ma non mi sarei mai arreso. Avrei continuato la missione.
Frequentavo il college, avevo un lavoro part-time ed ero fidanzato. Mi sarei sposato entro pochi mesi. La mia vita era entusiasmante e il futuro era molto promettente.
Fui sorpreso quando il mio presidente di palo, una domenica mattina, mi venne incontro. Mi disse: «Il Signore vuole che tu svolga una missione». Rimasi fortemente colpito dal fatto che questa chiamata fosse emanata da Dio. Agii in base a questa impressione ricevuta e mi impegnai immediatamente a svolgere la missione.
Fui chiamato nella Missione degli Stati Uniti Meridionali e iniziai la mia preparazione con compiti difficili. Mi licenziai dal lavoro, lasciai l’università, posticipai di due anni il mio matrimonio e salutai i miei cari. Mi sembrava di dipartirmi da ogni persona e ogni cosa che fossero importanti per me.
Feci il lungo viaggio in treno con i miei colleghi di missione fino ad Atlanta, in Georgia. Due missionari vennero a prenderci e ci condussero in automobile dal presidente di missione. Egli mi salutò e si trattenne con me per alcuni minuti e poi mi disse che dovevo prendere immediatamente l’autobus per Montgomery, in Alabama, dove avrei ricevuto istruzioni sul mio campo di lavoro. Gli stessi missionari che mi avevano prelevato alla stazione mi accompagnarono alla stazione degli autobus e mi dettero un foglio con un indirizzo. Mi dissero che i missionari di Montgomery mi avrebbero spiegato cosa fare.
Mi incamminai nella stazione degli autobus, comprai un biglietto e salii sul mezzo. Stava calando la sera e cominciai a sentirmi molto solo. Trovai un posto vicino al finestrino e cercai di ignorare il senso di frustrazione causato dal fatto di non sapere dove stessi andando, con chi avrei lavorato o che cosa avrei fatto.
Quando il conducente salì, mi guardò a lungo nello specchietto retrovisore. Mi si avvicinò gridando: «Cosa stai cercando di fare, ragazzo?» Rimasi scioccato dal suo modo di rivolgersi a me gridando in quel modo, con tutte le persone sull’autobus che guardavano. Non sapevo assolutamente perché era tanto arrabbiato. Riuscii a malapena a sussurrare: «Sto soltanto prendendo l’autobus».
Gridò: «Stai cercando di creare qualche problema?» Indicò una riga bianca sul pavimento dell’autobus che non avevo notato prima. Mi disse di sedermi davanti a quella riga o mi avrebbe fatto scendere dall’autobus. Ero terrorizzato e mi spostai immediatamente. Non seppi, fino a molto più tardi, che a quel tempo le righe bianche dividevano le zone in cui si sedevano i bianchi da quelle in cui prendevano posto i neri. C’era stato molto dissenso negli Stati Uniti meridionali a proposito della segregazione dei bianchi e dei neri, e il conducente dell’autobus pensava che stessi dando inizio ad una protesta.
Il viaggio durò diverse ore e rimasi raggomitolato nell’autobus cercando di allontanare la paura, la solitudine e l’imbarazzo. Quando arrivai a Montgomery, mi tremavano ancora le mani e riuscii a malapena a sollevare le valigie. L’autobus arrivò a notte inoltrata e la stazione era quasi vuota; non era venuto nessuno a prendermi. L’unica informazione che avevo era l’indirizzo che i missionari mi avevano dato ad Atlanta. Non sapevo che direzione prendere.
Svegliai un tassista che dormiva nel suo taxi e gli chiesi se poteva portarmi all’indirizzo indicato sul foglio. Era irritato. Mi disse quanto mi sarebbe costato e gli promisi che avrei pagato, anche se mi sembrava molto caro. Guidò per una distanza inferiore a novanta metri e mi disse: «Eccoci!» Il tassista chiese quanto gli dovevo e mi lasciò con le mie valigie davanti a una casetta bianca.
La casa era buia. Portai le mie valigie nel porticato e bussai alla porta. Nessuno venne. Bussai con più forza. Dopo qualche minuto, un missionario assonnato aprì la porta.
«Chi è?» mi chiese.
Quando gli disse chi ero e perché ero lì, disse che non sapeva del mio arrivo e non mi fece accomodare in casa. Mi scusai con lui e dissi che stavo facendo quello che mi avevano detto di fare.
«Non abbiamo posto per lei», disse, lasciandomi fuori, nel porticato.
«Cosa vuole che faccia, anziano?» Piansi. «Mi hanno mandato qui e non ho dove andare».
Mi invitò finalmente a entrare e mi disse che avrei dovuto dormire sul pavimento della cucina. Poi scomparve nella sua camera. Non mi ero mai sentito tanto solo, indesiderato e deluso.
Posai le mie valigie sul pavimento sporco e spensi la luce. Ero troppo avvilito per dormire, così stetti davanti alla porta e guardai fuori dalla finestra. Vidi la stazione degli autobus che avevo lasciato pochi minuti prima. Potevo facilmente andare alla stazione e comprare un biglietto per tornare a casa. Mi erano rimasti giusto i soldi per il biglietto. A casa mi aspettavano tutte le mie gioie, le mie speranze e i miei sogni. Le persone laggiù mi volevano bene. Avrei potuto riprendere il mio lavoro, tornare a scuola, vedere la mia famiglia e sposarmi. Pensai più volte: «Vai a casa. Qui nessuno si cura di te. Nessuno ti vuole».
Poi mi posi la domanda: «Per quale motivo sei venuto qui in primo luogo?» Mi tornarono in mente le parole del mio presidente di palo: «Il Signore vuole che tu svolga una missione». Quando mi aveva detto quelle parole, avevo avuto una sensazione fortissima. Quella sensazione era stata tanto forte da convincermi a rimandare il mio matrimonio, lasciare il mio lavoro e l’università per poter svolgere una missione. Ero sicuro che il Signore voleva che facessi la mia missione.
Tuttavia, trovarmi sul campo di missione non fu affatto come avevo immaginato. Una volta ero convinto, ma adesso che avevo maggior bisogno di una rassicurazione divina, quelle impressioni possenti sembravano un ricordo lontano.
Il mio inizio sul campo della missione a tempo pieno era stato inaspettatamente difficile per me. Eppure sapevo che quella era la missione assegnatami dal Signore. Una volta avevo saputo senza alcun dubbio che il Suo volere era che svolgessi una missione. L’assenza di una profonda testimonianza davanti a quella finestra buia dell’appartamento dei missionari non cambiò quella convinzione.
Ero in procinto di fare una scelta della massima importanza. Era una scelta fra quello che volevo fare e quello che il Signore voleva che facessi. Quella fu la prima volta, a mia memoria, che seppi riconoscere tanto chiaramente la scelta da compiere.
Pensai tra me: «Non abbandonerò mai e poi mai la chiamata che ho accettato. Non importa quello che succede, io rimarrò in missione». Nel pronunciare quelle parole, la pace invase il mio cuore per la prima volta da quando ero arrivato sul campo di missione.
Oggi, a distanza di molti anni, capisco che il Signore mi stava guidando attraverso questa esperienza. Ho imparato che il Signore ci benedice con la Sua pace soltanto dopo che dimostriamo di avere il desiderio di obbedire. Sarò sempre grato delle benedizioni ricevute in conseguenza di quella scelta. Ha cambiato la mia vita per sempre.
«Il vero successo di una missione non si misura mediante un grafico: è inciso nel vostro cuore e nel cuore di coloro che hanno cambiato vita per sempre grazie a voi. Porta spesso la tua testimonianza. Secondo la mia esperienza un missionario può esercitare il massimo potere e influenza positiva portando semplicemente una sincera testimonianza. La tua testimonianza è il primo passo per la conversione di coloro ai quali insegni. Abbi il coraggio di invitare gli altri a cambiare vita e a venire a Cristo mediante l’obbedienza ai principi e alle ordinanze del Vangelo».
Anziano Dennis B. Neuenschwander, membro della presidenza dei Settanta, «A un figlio missionario», La Stella, gennaio 1992, .