Messaggio della Prima Presidenza
È risorto
Qualche tempo fa un turista mi ha chiesto: «Cosa c’è da vedere mentre sono a Salt Lake City?» Istintivamente gli ho suggerito una visita alla Piazza del Tempio, una gita in macchina nei vicini canyon, una visita alla miniera di rame di Bingham e forse una nuotata nel Gran Lago Salato. Per timore di essere frainteso mi trattenni dall’esternare il pensiero: «Ha preso in considerazione l’eventualità di passare un’ora o due in uno dei nostri cimiteri?» Non gli dissi mai che ovunque mi rechi in viaggio cerco di fare visita al cimitero locale. Ho così la possibilità di dedicare un po’ di tempo alla meditazione e alla riflessione sul significato della vita e sull’inevitabilità della morte.
Un amore più grande
Nel piccolo cimitero di Santa Clara, nello Utah, ricordo la prevalenza di nomi svizzeri incisi sulle lapidi segnate dal tempo. Molte delle persone ivi sepolte lasciarono casa e famiglia nella verde Svizzera e in risposta alla chiamata «venite a Sion» fondarono gli insediamenti in cui essi oggi «riposano in pace». Essi affrontarono inondazioni primaverili, siccità estive, scarsi raccolti e durissime fatiche. Essi lasciarono un’eredità di sacrificio.
I cimiteri più vasti e che per molti aspetti destano in noi le emozioni più profonde sono onorati come luoghi di riposo di uomini che sono morti nel tumulto della guerra mentre indossavano l’uniforme del loro paese. Non si può fare a meno di riflettere sui sogni infranti, sulle speranze non realizzate, sulle sofferenze e sulle vite spezzate dall’affilata falce della guerra.
Attorno alle città della Francia e del Belgio vi sono interi ettari di terra ricoperti di croci bianche allineate perfettamente che fanno riflettere sulle terribili perdite causate dalla prima guerra mondiale. Verdun è praticamente un gigantesco cimitero. Ogni primavera i contadini, quando arano la terra, portano alla luce qui un elmetto, là una canna di fucile: tristi ricordi dei milioni di uomini che inzupparono letteralmente il terreno con il loro sangue.
Una visita a Gettysburg, in Pennsylvania, e agli altri campi di battaglia della guerra civile americana fa rivivere quel conflitto durante il quale i fratelli combatterono contro i fratelli. Alcune famiglie persero le loro fattorie, altre quanto possedevano. Una famiglia perse tutto ciò che aveva. Lasciate che vi legga la memorabile lettera scritta dal presidente Abramo Lincoln alla signora Lydia Bixby:
«Gentile signora,
Negli archivi del Dipartimento della Guerra mi è stata mostrata una dichiarazione dell’aiutante generale del Massachusetts nella quale si indica che lei è la madre di cinque giovani che sono caduti gloriosamente sul campo di battaglia. Sono cosciente della debolezza e della futilità delle parole che posso dire per cercare di alleviarle il dolore di una perdita così grande. Ma non posso trattenermi dal porgerle la consolazione che si può trovare nei ringraziamenti della repubblica per salvare la quale essi morirono. Prego che il nostro Padre nei cieli possa alleviare l’angoscia del suo lutto e lasciarle soltanto i ricordi felici delle persone amate e perdute e il solenne orgoglio che deve sentire per aver deposto sull’altare della libertà un sacrificio tanto oneroso.
Con sincerità e rispetto.
Abramo Lincoln».1
Una visita al Punchbowl Cemetery di Honolulu o al Memorial Cemetery del Pacifico a Manila ci ricorda che non tutti coloro che morirono durante la seconda guerra mondiale sono sepolti sotto la verde erba di un prato. Molti affondarono tra le onde dell’oceano sul quale navigavano e dove morirono.
Tra le migliaia di militari che rimasero uccisi nell’attacco mosso a Pearl Harbor c’era un marinaio di nome William Ball di Frediricksburg, nell‘Iowa. Ciò che lo distingue tra gli altri che morirono in quel giorno del 1941 non è un particolare atto di eroismo, ma una catena di eventi alla quale la sua morte dette inizio a casa sua.
Quando gli amici di infanzia di William, i cinque fratelli Sullivan della vicina città di Waterloo, furono informati della sua morte, si recarono insieme ad arruolarsi in marina. I Sullivan, che desideravano vendicare il loro amico, insistettero per rimanere insieme e la marina accolse la loro richiesta. Il 14 novembre 1942 l’incrociatore sul quale erano imbarcati i cinque fratelli, lo USS Juneau, fu colpito e affondato nella battaglia di Guadalcanal presso le isole Salomone.
Passarono quasi due mesi prima che la signora Sullivan ricevesse la notizia che arrivò non con il solito telegramma, ma con un corriere speciale: tutti e cinque i suoi figli erano stati dichiarati dispersi in azione nel Pacifico meridionale e si presumeva fossero morti. I loro corpi non furono mai ritrovati.
Una sola frase, che fu pronunciata da una sola persona, fornisce un adeguato epitaffio: «Nessuno ha amore più grande che quello di dar la sua vita per i suoi amici».2
«Non dolore, ma gratitudine»
Dalla profonda influenza che un individuo esercita sulla vita degli altri di solito non si parla e talvolta non la si conosce neppure. Tale fu l’esperienza dell’insegnante di alcune ragazze di dodici anni appartenenti alla classe delle Api della AMM. Ella non aveva figli suoi, sebbene sia lei che suo marito li avessero desiderati a lungo. Il suo amore veniva così espresso nella devozione che dedicava alle sue ragazze mentre le istruiva nelle verità eterne e nelle lezioni di vita. Poi venne una malattia seguita dalla morte. Ella aveva soltanto ventisette anni.
Ogni anno, nel giorno dedicato ai defunti, le sue ragazze compivano un pellegrinaggio di preghiera alla tomba della loro insegnante. All’inizio erano in sette, poi quattro, poi due e infine soltanto una, che continuò questi pellegrinaggi annuali per porre sempre sulla tomba un mazzo di iris, a simbolo di profonda gratitudine. Oggi ella stessa è un’insegnante di giovani ragazze. Non dobbiamo stupirci che abbia tanto successo. Ella rispecchia in sé le qualità dell’insegnante che l’ha ispirata. La vita condotta da quell’insegnante e le lezioni che ha insegnato non sono rimaste sepolte sotto la lapide che segna il luogo del suo riposo, ma vivono nelle personalità che ella ha contribuito a plasmare e nelle vite che ha reso più belle per la sua presenza. Non possiamo non ricordare un altro Grande Maestro, il Signore. Una volta con il Suo dito Egli scrisse sulla polvere un messaggio.3Il vento del tempo ha cancellato per sempre le parole che Egli scrisse, ma non la vita che Egli condusse.
«Tutto ciò che possiamo conoscere di coloro che abbiamo amato e perduto», ha scritto Thornton Wilder, «è che essi vorrebbero essere ricordati con una maggiore coscienza della loro realtà… Il più alto tributo che possiamo fare ai morti non è il dolore ma la gratitudine».
I ragazzi Keller
Alcuni anni fa nella bellissima Heber Valley, poco a est di Salt Lake City, una madre affettuosa e un padre devoto ritornarono alla loro amata casa per scoprire che i loro tre figli più grandi vi giacevano morti. Durante la gelida notte il vento aveva sospinto sul camino la neve bloccandone lo sfiato: il venefico ossido di carbonio aveva così riempito la casa.
Il servizio funebre dei ragazzi Keller fu una delle più commoventi esperienze della mia vita. Tutti gli abitanti della comunità avevano interrotto le loro attività quotidiane, le scuole avevano chiuso i battenti e tutti avevano affollato la cappella per esprimere i loro più profondi sentimenti di condoglianza. Sino a quando il tempo e la memoria dureranno ricorderò la vista delle tre bare lucenti seguite da genitori e nonni afflitti dal dolore davanti all’edificio.
Il primo oratore fu l’allenatore di lotta libera della locale scuola media. Egli tessé gli elogi di Louis, il più grande. Con voce piena di emozione, cercando di trattenere le lacrime, egli disse che Louis non era forse il lottatore più dotato della squadra, ma aggiunse: «Nessuno si impegnava più di lui. Egli sopperiva a ciò che gli mancava in quanto a capacità atletiche con un animo fermamente deciso a riuscire».
Poi un giovane dirigente parlò di Travis. Disse come questi aveva dato di sé un’eccellente prestazione nel movimento degli Scout, nel lavoro del Sacerdozio di Aaronne e nella bontà dimostrata verso i suoi amici.
E infine una distinta e competente insegnante delle elementari aveva parlato di Jason, il più giovane dei tre fratelli. Lo aveva descritto come un ragazzo quieto, persino timido. Poi, senza esitazione, aveva detto che Jason con la sua scrittura ancora incerta le aveva inviato la lettera più dolce e più gradita della sua vita. Il messaggio era breve, soltanto tre parole: «Ti voglio bene». Ella era riuscita appena a portare a termine il suo discorso tanta era l’emozione che provava.
Tra le lacrime e il dolore di quel giorno presi atto delle lezioni eterne insegnate da quei ragazzi la cui vita veniva onorata e la cui missione su questa terra era ultimata.
Un allenatore espresse la determinazione di guardare al di là della prestanza atletica per scrutare nel cuore di ogni ragazzo. Un giovane dirigente aveva fatto un solenne voto che ogni ragazzo e ragazza avrebbero beneficiato del programma istituito dalla Chiesa. Un’insegnante delle elementari aveva guardato i piccoli compagni di Jason; non aveva detto nulla ma i suoi occhi rispecchiavano la decisione della sua anima. Il messaggio che ella comunicò con il suo silenzio era inequivocabile: «Vorrò bene ad ogni mio scolaro. Ogni bambino, ogni bambina, sarà da me guidato nella ricerca della verità e nello sviluppo dei suoi talenti e sarà introdotto nel meraviglioso mondo del servizio».
E i presenti non saranno mai più gli stessi. Tutti si sforzeranno per raggiungere la perfezione di cui parlò il Maestro. Da dove otteniamo la nostra ispirazione? Dalla vita di quei ragazzi che ora riposano dalle cure e dai dolori, dalla forza d’animo dei genitori che confidano nel Signore nel loro cuore senza appoggiarsi sul proprio discernimento e che in tutte le loro vie Lo riconoscono sapendo che Egli li guiderà sul loro cammino.4
Desidero leggervi parte di una lettera inviatami dalla nobile madre di questi tre giovani scritta poco dopo la loro morte:
«Stiamo vivendo giorni e notti che al momento sembrano insopportabili. Il cambiamento nella nostra vita è stato talmente drastico! Con quasi metà della famiglia passata dall’altra parte del velo, mangiare, lavare e anche fare la spesa sembrano diversi. Sentiamo la mancanza del rumore, delle voci, dei giochi, degli scherzi. Queste cose non fanno più parte della nostra vita. La domenica è così silenziosa. Non vediamo più il sacramento benedetto e distribuito dai nostri figli. La domenica era veramente il giorno che la nostra famiglia trascorreva insieme. Pensiamo che non vi saranno più missioni, matrimoni o nipotini. Non vogliamo chiedere il loro ritorno, ma non possiamo dire che abbiamo rinunciato volentieri a loro. Siamo ritornati ai nostri doveri in seno alla Chiesa e allo svolgimento delle nostre responsabilità familiari. Il nostro desiderio è di vivere in modo che la famiglia Keller possa diventare una famiglia eterna».
Ai Keller, ai Sullivan, e invero a tutti coloro che hanno amato e perduto, lasciate che esprima la convinzione della mia anima e la testimonianza del mio cuore e che illustri le esperienze da me vissute.
La morte: un capitolo nuovo della vita
Noi sappiamo che ognuno di noi ha vissuto nel mondo degli spiriti con il Padre celeste. Sappiamo di essere venuti sulla terra per imparare, vivere e progredire nel nostro viaggio eterno verso la perfezione. Alcuni rimangono sulla terra soltanto per un attimo mentre altri vi trascorrono lunghi anni. La misura della nostra grandezza non è la durata della nostra permanenza quaggiù, ma il modo in cui viviamo. Poi viene la morte e l’inizio di un nuovo capitolo della nostra vita. Dove ci porta questo capitolo?
Molti anni fa mi trovavo al capezzale di un giovane padre di due figli che sembrava librarsi tra la vita e il grande aldilà. Egli mi prese la mano, mi guardò negli occhi e disse implorante: «Vescovo, so che sto per morire. Mi dica ciò che accadrà al mio spirito dopo la morte».
Pregai per avere la guida divina prima di cercare di rispondergli. La mia attenzione fu diretta al Libro di Mormon che si trovava sul tavolino posto accanto al letto. Presi in mano il libro e, proprio come mi trovo qui davanti a voi oggi, il libro si aprì al quarantesimo capitolo di Alma. Cominciai a leggere ad alta voce:
«Ora, figlio mio, vi è qualcosa di più che vorrei dirti; poiché percepisco che la tua mente è turbata in merito alla risurrezione dei morti…
Ora, riguardo alla condizione dell’anima fra la morte e la risurrezione—ecco che mi è stato reso noto da un angelo che gli spiriti di tutti gli uomini, appena hanno lasciato questo corpo mortale,… sono ricondotti a quel Dio che diede loro la vita.
E allora avverrà che gli spiriti di coloro che sono giusti saranno ricevuti in una condizione di felicità, che è chiamata paradiso, una condizione di pace, dove si riposeranno da tutte le loro afflizioni, da tutte le preoccupazioni e dolori».5
Il mio giovane amico chiuse gli occhi, espresse un sincero grazie e silenziosamente passò a quel paradiso di cui avevamo parlato.
La vittoria sulla tomba
Poi viene il glorioso giorno della risurrezione in cui lo spirito e il corpo si riuniscono per non esser mai più separati. «Io sono la risurrezione e la vita», disse il Cristo a Marta piangente. «Chi crede in me, anche se muoia, vivrà;
e chiunque vive e crede in me, non morrà mai».6
«Io vi lascio pace; vi do la mia pace. Io non vi do come il mondo dà. Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti».7
«Nella casa del Padre mio ci son molte dimore; se no, ve l’avrei detto; io vo a prepararvi un luogo… affinché dove son io, siate anche voi».8
Questa trascendente promessa divenne una realtà quando le due Marie si avvicinarono alla tomba del giardino, quel cimitero che aveva soltanto un occupante. Lasciamo che sia Luca, il medico, a descrivere l’esperienza da esse vissuta:
«Ma il primo giorno della settimana, la mattina, molto per tempo, esse si recarono al sepolcro…
E trovarono la pietra rotolata dal sepolcro…
Ma essendo entrate non trovarono il corpo del Signor Gesù…
Mentre se ne stavano perplesse di ciò, ecco che apparvero dinanzi a loro due uomini in vesti sfolgoranti;
E… dissero loro: Perché cercate il vivente fra i morti?»9
«Egli non è qui… poiché è risuscitato».10
Questo è il chiaro annuncio della cristianità. La realtà della risurrezione dà a ognuno di noi la pace che sorpassa ogni comprensione.11Questo è di conforto per chi ha amato coloro che giacciono nella terra delle Fiandre, che perirono nelle profondità degli abissi, che riposano nel piccolo cimitero di Santa Clara o nella tranquilla Heber Valley. È una verità universale.
Come il più umile dei Suoi discepoli vi proclamo la mia testimonianza personale che la morte è stata vinta, che la vittoria sulla tomba è stata raggiunta. Possano le parole rese sacre da Colui che le realizzò diventare un’effettiva e sicura conoscenza per tutti. Ricordatele. Tenetele care. Onoratele. Egli è risorto.
Suggerimenti per gli insegnanti familiari
Dopo un’attenta preparazione sostenuta dalla preghiera, condividete questo messaggio in modo da incoraggiare la partecipazione di coloro ai quali insegnate. Seguono alcuni esempi:
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Leggete la prima sezione di questo messaggio insieme con i membri della famiglia. Invitateli a raccontare le loro esperienze in fatto di cimiteri e cerimonie funebri. Condividete i vostri sentimenti sulla Risurrezione e sulla testimonianza del presidente Monson negli ultimi due paragrafi.
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Leggete i primi due paragrafi sotto il titolo «La morte: un capitolo nuovo della vita». Chiedete ai membri della famiglia come avrebbero risposto alla domanda dell’uomo in fin di vita. Chiedete loro di dirvi cosa hanno imparato sulla vita dopo la morte leggendo Alma 40:1, 11–12; Giovanni 11:25–26; 14:2–3, 27.
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Chiedete a ogni persona di scrivere almeno una domanda sulla vita dopo la morte. Esaminate le loro domande e condividete gli approfondimenti del messaggio che sono stati utili per dare risposta alle domande.