Storia della Chiesa
39 Nelle mani di Dio


“Nelle mani di Dio”, capitolo 39 di Santi – La storia della Chiesa di Gesù Cristo negli ultimi giorni, Volume 2, Nessuna mano profana, 1846–1893 (2020)

Capitolo 39: “Nelle mani di Dio”

Capitolo 39

Nelle mani di Dio

telegramma che annuncia il Manifesto

Il 14 dicembre 1889, l’apostolo appena chiamato Anthon Lund ricevette un telegramma dalla Prima Presidenza a casa sua a Efraim, nello Utah. Turbata dai recenti casi in cui ai santi di origine straniera era stata negata la cittadinanza statunitense, la presidenza voleva rispondere all’accusa secondo cui era impossibile per i santi essere cittadini leali. I dirigenti della Chiesa avevano redatto una dichiarazione che negava questa e altre false asserzioni e volevano includervi il nome di Anthon in quanto membro del Quorum dei Dodici.1

Sin da bambino Anthon aveva difeso la Chiesa dalle false dichiarazioni che la riguardavano. Dopo che si fu unito alla Chiesa da ragazzo nella sua nativa Danimarca, era stato picchiato dai compagni di classe per le sue credenze. Invece di rispondere con rabbia, Anthon aveva mostrato loro pazienza e gentilezza, riuscendo alla fine a conquistarsi la loro amicizia e il loro rispetto. Anthon aveva lasciato la Danimarca all’età di diciotto anni per unirsi ai santi nello Utah, e nei decenni successivi, lui e sua moglie, Sanie, e i loro sei figli avevano sacrificato molto per contribuire all’edificazione del regno di Dio.2

Anthon rispose immediatamente al telegramma della Prima Presidenza, aggiungendo il suo nome alla loro dichiarazione. Anche se aveva ricoperto molte posizioni di responsabilità nella Chiesa, incluso servire nella presidenza del Tempio di Manti, questa era la prima volta in cui il suo nome sarebbe stato mandato in tutto il mondo come apostolo di Gesù Cristo.

A differenza degli altri membri del Quorum dei Dodici, Anthon non aveva mai praticato il matrimonio plurimo. Era anche il primo apostolo moderno a non essere madrelingua inglese. Wilford Woodruff era fiducioso che queste differenze potessero beneficiare il quorum e sapeva che la chiamata di Anthon era la volontà di Dio. I modi gentili e la capacità di Anthon di parlare diverse lingue potevano contribuire a preparare la Chiesa per il secolo successivo.3

Quando Anthon fu chiamato a far parte dei Dodici, Wilford chiese a George Q. Cannon di offrirgli un consiglio apostolico che lo preparasse per le sue nuove responsabilità. “Per adempiere correttamente a questa chiamata sarà necessario il lavoro di una vita”, disse George ad Anthon. “Sentirai, come probabilmente non hai mai sentito prima, la necessità di vivere vicino a Dio e di invocare il Suo potere e di avere le Sue cure amorevoli, tramite i Suoi angeli tutt’attorno a te”.

Grazie a questo consiglio, Anthon imparò che, come apostolo, era suo privilegio imparare a conoscere gli intenti e la volontà di Dio. Egli doveva rimanere fedele alle rivelazioni che avrebbe ricevuto, anche quando fossero sembravate contrarie al suo giudizio naturale. “Non sarai mai troppo umile”, gli aveva ricordato George. Anthon doveva esporre liberamente il suo punto di vista pur ascoltando con mitezza il profeta del Signore. “Dobbiamo essere disposti a starcene seduti a guardare come opera lo Spirito di Dio su quest’uomo che Dio ha scelto”, aveva detto George.4

Il giorno in cui Anthon rispose al telegramma, la Prima Presidenza e il Quorum dei Dodici pubblicarono la loro dichiarazione nel Deseret News. Con un linguaggio chiaro, proclamarono che la Chiesa detestava la violenza e intendeva vivere in pace con il governo degli Stati Uniti, nonostante le avversità che aveva sofferto a causa delle leggi contrarie alla poligamia promulgate della nazione.

“Noi non pretendiamo alcuna libertà religiosa che non siamo disposti ad accordare agli altri”, affermava la dichiarazione. “Desideriamo essere in armonia con il governo e con il popolo degli Stati Uniti come parte integrante della nazione”5.


Quell’inverno, mentre i dirigenti della Chiesa cercavano di chiarire alla nazione ciò in cui credevano, Jane Manning James scrisse a Joseph F. Smith cercando chiarezza per sé. Jane aveva più di sessant’anni e si preoccupava di ciò che la vita a venire aveva in serbo per lei. La maggior parte dei santi nello Utah avevano ricevuto le ordinanze del tempio che li suggellavano ai loro cari in questa vita e nella prossima. A Jane sembrava di capire che, come santa degli ultimi giorni di colore, non le era permesso di prendere parte a queste ordinanze superiori.

Nonostante ciò, Jane sapeva che Dio aveva promesso di benedire tutte le nazioni della terra tramite Abrahamo. Sicuramente, pensava, questa promessa si applicava anche a lei.6

Oltre alla preoccupazione di Jane riguardo alla vita a venire c’era quella riguardante la sua famiglia attuale. Lei e suo marito, Isaac, avevano divorziato nella primavera del 1870. Intorno al 1874, aveva sposato Frank Perkins, un altro santo degli ultimi giorni nero, ma il loro matrimonio non era durato. Durante quegli anni, aveva perso tre figli e diversi nipoti a causa delle malattie. Sebbene quattro dei suoi figli fossero ancora vivi, nessuno di loro era devoto alla Chiesa come lei.7

Sarebbero stati con lei nella prossima vita? Se non fosse stato così, ci sarebbero stati un posto e una famiglia per lei?

Quando era una giovane donna, Jane aveva vissuto e lavorato nella casa di Joseph ed Emma Smith a Nauvoo. Durante quel periodo, Emma l’aveva invitata a essere adottata come figlia sua e di Joseph, ma Jane non le aveva mai dato una risposta diretta prima della morte di Joseph. Ora, tuttavia, Jane sapeva che i santi potevano essere adottati in famiglie attraverso un particolare suggellamento nel tempio. Lei riteneva che Emma l’avesse invitata a unirsi alla loro famiglia in questo modo.8

All’inizio del 1883, Jane aveva fatto visita al presidente John Taylor per chiedere il permesso di ricevere la sua investitura. Il presidente Taylor aveva parlato con lei della questione, ma pensava che non fosse ancora arrivato il momento in cui i santi di colore potessero ricevere le ordinanze superiori del tempio. Aveva analizzato la questione diversi anni prima, quando un altro santo di colore, Elijah Able, aveva chiesto di ricevere le sue ordinanze del tempio. Anche se la sua indagine aveva confermato che Elijah aveva ricevuto il Sacerdozio di Melchisedec negli anni ’30 del diciannovesimo secolo, il presidente Taylor e altri dirigenti della Chiesa avevano tuttavia deciso di rifiutare la richiesta di Elijah per via della sua razza.9

Quasi due anni dopo aver parlato con il presidente Taylor, Jane lo aveva supplicato nuovamente. “Mi rendo conto della mia razza e del mio colore e che non posso aspettarmi di ricevere le mie investiture”, dichiarò a quel tempo. Tuttavia, ella osservò che Dio aveva promesso di benedire tutta la posterità di Abrahamo. “Poiché questa è la pienezza di tutte le dispensazioni”, chiese, “non c’è una benedizione per me?”.

“Lei conosce la mia storia”, continuò. “Al meglio delle mie capacità, ho osservato tutti i requisiti del Vangelo”. Poi raccontò dell’invito di Emma ed espresse il suo desiderio di essere adottata nella famiglia di Joseph Smith. “Se potessi essere adottata da lui come figlia”, osservò, “la mia anima sarebbe soddisfatta”10.

Poco dopo che Jane ebbe inviato la sua lettera, il presidente Taylor lasciò Salt Lake City per far visita agli insediamenti meridionali e del Messico, e non le rispose prima di morire. Quattro anni dopo, il presidente di palo di Jane le rilasciò una raccomandazione per celebrare i battesimi per i morti nel tempio. “Devi accontentarti di questo privilegio, in attesa di ulteriori istruzioni da parte del Signore ai Suoi servitori”, le scrisse. Poco tempo dopo, Jane si recò al Tempio di Logan e ricevette il battesimo per la madre, la nonna, la figlia e altri parenti defunti.11

Ora, nella sua lettera a Joseph F. Smith, Jane chiedeva nuovamente di avere la possibilità di ricevere le ordinanze del tempio, inclusa l’adozione nella famiglia Smith. “Si può celebrare e quando?”, chiese.12

Jane non ricevette risposta alla sua lettera, così ad aprile scrisse un’altra volta. Di nuovo non ricevette alcuna risposta. Jane continuava ad avere fede nel vangelo restaurato e nei profeti, e pregava di poter ricevere la salvezza nel regno del Signore. “So che questa è l’opera di Dio”, aveva detto una volta alla sua Società di Soccorso. “Mai una volta ho pensato di lasciare la Chiesa”.

Confidava anche nelle promesse che aveva recentemente ricevuto nella benedizione patriarcale impartitele da John Smith, fratello maggiore di Joseph F. Smith.

“Considera sacre le tue alleanze, poiché il Signore ha udito le tue suppliche”, la rassicurava la benedizione. “La Sua mano è stata su di te per il tuo bene, e in verità tu riceverai la tua ricompensa”.

Essa prometteva: “Completerai la tua missione e riceverai la tua eredità tra i santi, e il tuo nome sarà tramandato alla posterità in onorevole ricordo”13.


In un pomeriggio uggioso alla fine di aprile del 1890, Emily Grant andò a casa della sua amica Josephine Smith. Entrambe le donne vivevano a Manassa, una piccola città del Colorado, pochi chilometri a sud della casa di Lorena e Bent Larsen, a Sanford. Lontana dai più grandi insediamenti dei santi nello Utah, Manassa era diventata un rifugio per le “vedove della poligamia” ossia le mogli plurime in clandestinità. Emily si sentiva sola, ma si stava sforzando di sentirsi a casa in quella cittadina ventosa con le sue figlie, Dessie di quattro anni e Grace, che era neonata.

Durante il breve tragitto per raggiungere la casa di Josephine, Dessie si era lamentata e aveva pianto, triste per il fatto che il suo amato “zio Eli” non potesse unirsi a loro. Anche Emily era triste. “Zio Eli” era il nome in codice di Emily per l’apostolo Heber Grant, suo marito e padre di Dessie e di Grace. Come terza moglie di Heber, Emily usava il nome in codice nelle lettere e con le figlie per proteggere l’identità di Heber.

Quel giorno Heber era partito per tornare a casa a Salt Lake City dopo aver trascorso due giorni con Emily e le bambine. Emily sperava che far visita a Josephine l’avrebbe rallegrata. Ma non appena arrivò con le bambine, Emily scoppiò in lacrime. Josephine comprendeva i sentimenti dell’amica. Ella stessa era una moglie plurima dell’apostolo John Henry Smith, che era appena arrivato in città per una breve visita.14

Per Emily, le visite di Heber non erano mai abbastanza lunghe. Entrambi erano cresciuti nel Tredicesimo Rione di Salt Lake City e si erano sposati nella primavera del 1884 dopo un lungo corteggiamento. Come moglie plurima, Emily non aveva potuto rendere pubblico il suo matrimonio e nei sei anni successivi si era trasferita spesso, trascorrendo del tempo nel sud dell’Idaho, in Inghilterra e in un appartamento nascosto nella casa di sua madre a Salt Lake City.15

Ora Emily era a Manassa, con la speranza che la sua lunga separazione da Heber potesse un giorno finire. Abituata a vivere in grandi città, si stava ancora adattando alla vita in quel piccolo centro abitato e a volte si sentiva a centinaia di chilometri di distanza dalla civiltà. Heber aveva cercato di aiutarla fornendole una casa ammobiliata, una coppia di cavalli, alcune mucche e galline, una persona assunta che la aiutasse e un abbonamento al Salt Lake Herald. Anche sua suocera, Rachel Grant, era andata a stare con lei in quella cittadina isolata.16

“Ora ho tutto ciò che voglio”, scrisse una volta Emily a Heber in una lettera da Manassa. “Tranne te”17.

Quasi due settimane dopo la visita di Heber, Emily gli scrisse di una riunione a Manassa in cui due dirigenti della Chiesa avevano detto che le “vedove” della città forse non avrebbero mai più potuto tornare nello Utah. “Hanno detto che la prossima mossa del Congresso sarà di confiscare le proprietà dei dirigenti della Chiesa”, riferì, “e che allora saremo molto contente di essere venute a sistemarci qui”.

Emily, però, non era convinta che sarebbe mai stata felice di vivere in quella cittadina.18 “Continuo a pregare per avere una mente serena, ma mi sento ancora scoraggiata e nostalgica”, scrisse a Heber qualche mese dopo. “Non scordarti di pregare per me, mio caro, poiché, senza l’aiuto del mio Padre nei cieli, non potrò resistere ancora a lungo e rimanere in salute”19.

Domenica 17 agosto Wilford Woodruff e i suoi consiglieri fecero visita al piccolo insediamento. Per allora, la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva emanato la sua sentenza sulla legalità della legge Edmunds-Tucker. La corte si era trovata divisa sul caso, ma una piccola maggioranza di giudici aveva votato a sostegno della legge, nonostante le affermazioni dei santi secondo cui essa violava la loro libertà religiosa. La decisione diede ai funzionari governativi la piena libertà di implementare le sanzioni previste dalla legge, e questo aprì alla possibilità di sequestrare ulteriori proprietà dalla Chiesa.20

Durante una riunione con i santi di Manassa, George Q. Cannon avvertì le famiglie di stare attente. Egli disse che alcuni uomini in città vivevano con più di una moglie, e quegli uomini rischiavano di causare difficoltà e persecuzioni all’intera comunità. L’osservazione fece irritare alcuni uomini, che il giorno dopo andarono da George per spiegare quanto fosse difficile per le loro famiglie vivere separate.21

Prima che Wilford e i suoi consiglieri partissero, Emily li invitò con altri amici per colazione. In seguito, lei e alcune altre donne accompagnarono i visitatori alla stazione ferroviaria. Il treno era in ritardo, dando così a Emily la possibilità di parlare un po’ più a lungo con la Prima Presidenza. Quando finalmente arrivò il treno, strinse le mani di ogni uomo. “Dio vi benedica”, fu il loro saluto reciproco. “La pace sia con voi”.

Anche Emily desiderava lasciare Manassa. “Loro sono partiti” scrisse a Heber, “e noi siamo tornati in questo luogo desolato”22.


La Prima Presidenza tornò a Salt Lake City alla fine di agosto, appena in tempo per il primo anniversario di Iosepa, il primo insediamento di santi hawaiani nello Utah. Il nome Iosepa era la versione hawaiana del nome Joseph.23

Quando gli hawaiani cominciarono a unirsi alla Chiesa negli anni ’50 del diciannovesimo secolo, il regno delle Hawaii aveva impedito al suo popolo di abbandonare le isole, spingendo i dirigenti della Chiesa a stabilire Laie come luogo di raduno per i santi hawaiani. Lentamente, però, le leggi erano diventate meno rigide e alcuni hawaiani, impazienti di ricevere le benedizioni del tempio, avevano cominciato a radunarsi nel Territorio dello Utah nel decennio del 1880.

Nel 1889, la Prima Presidenza aveva organizzato un comitato, di cui facevano parte anche tre uomini hawaiani, che trovasse un luogo adatto nello Utah dove i santi hawaiani potessero costruire case e fattorie. Dopo aver valutato diverse aree, il gruppo propose vari luoghi, tra cui un ranch di circa settecentocinquanta ettari, un centinaio di chilometri a sud-ovest di Salt Lake City. La Prima Presidenza esaminò le proposte del comitato e decise di acquistare il ranch per il nuovo insediamento.24

Per tutto l’anno seguente, i santi a Iosepa avevano lavorato sodo per costruire case, piantare colture e prendersi cura del bestiame. Il primo inverno era stato duro, soprattuto se paragonato al clima tropicale delle Hawaii. I coloni però avevano perseverato, sperando che il terreno fertile di Iosepa e la disponibilità di acqua che arrivava dalle montagne vicine potessero fornire un abbondante raccolto estivo.25

Il giorno dei festeggiamenti fu caldo e soleggiato. Quando i membri della Prima Presidenza, accompagnati rispettivamente da una delle loro mogli, si avvicinarono all’insediamento, Iosepa apparve come una verde oasi in mezzo al paesaggio desertico. Le piante di mais nei campi circostanti erano alte e cariche di grandi pannocchie, e il fieno nei campi già mietuti giaceva in grosse cataste gialle.

I santi hawaiani si riunirono intorno ai visitatori, ansiosi di salutare il loro profeta e i suoi consiglieri, George Q. Cannon e Joseph F. Smith, che avevano entrambi svolto una missione nelle Hawaii quand’erano giovani. La sera fu accompagnata da una musica gioiosa mentre i santi di Iosepa cantavano e suonavano chitarre, mandolini e violini.

La celebrazione continuò il giorno dopo con una parata, seguita da un banchetto di carne arrostita in una fossa. Quando pronunciò la benedizione per il cibo, George disse la preghiera in hawaiano — erano trentasei anni che non lo faceva.

Più tardi, quel giorno, tutti si ritrovarono per una riunione speciale. Solomona, l’uomo ultranovantenne che George aveva battezzato decenni prima, offrì una fervente preghiera di apertura. Un santo, Kaelakai Honua, parlò della misericordia di Dio nel radunare i popoli delle isole del mare a Sion. Un altro uomo, Kauleinamoku, si rammaricò perché alcune persone avevano lasciato Iosepa per tornare nel Pacifico. Esortò i santi a essere fedeli e a non cedere allo spirito di insoddisfazione.

Tutto attorno a Iosepa le persone festeggiarono insieme, e Wilford, George e Joseph gioirono della loro felicità. Anche se George non aveva mantenuto la sua capacità di parlare bene la lingua hawaiana, si meravigliò di aver compreso quasi ogni parola pronunciata durante i festeggiamenti.26


Pochi giorni dopo il ritorno a casa della Prima Presidenza da Iosepa, i suoi membri furono informati che Henry Lawrence, il nuovo ufficiale federale incaricato di requisire le proprietà della Chiesa in base alla legge Edmunds-Tucker, stava ora minacciando di confiscare i templi di Logan, Manti e St. George.

Ex membro della Chiesa, Henry era stato un aspro oppositore dei santi per più di vent’anni. Aveva fatto parte del New Movement di William Godbe ed Elias Harrison e aveva testimoniato contro la Chiesa durante il recente procedimento processuale che impediva ai santi immigranti di ottenere la cittadinanza.

Henry sapeva che la legge Edmunds-Tucker proteggeva gli edifici usati “esclusivamente allo scopo di rendere il culto a Dio”, ma lui intendeva dimostrare che i templi venivano usati per altri scopi e che quindi potevano essere sequestrati insieme ad altre proprietà.

Il 2 settembre, la Prima Presidenza venne a sapere che Henry era riuscito a ottenere un ordine di comparizione per Wilford, che avrebbe dovuto testimoniare in tribunale in merito alle proprietà della Chiesa. Cercando di evitare il mandato di comparizione, la presidenza si recò in California per consultare diversi uomini influenti che guardavano con empatia alla situazione dei santi. Questi uomini poterono offrire poca speranza che il governo degli Stati Uniti o il popolo americano avrebbero cambiato idea sulla Chiesa fintanto che i santi avessero continuato a praticare il matrimonio plurimo.27

Wilford e i suoi consiglieri fecero ritorno nello Utah alcune settimane dopo e vennero a sapere che la Commissione dello Utah, un gruppo di funzionari federali che gestiva le elezioni dello Utah e controllava che i santi seguissero le leggi contro la poligamia, aveva appena inviato il suo rapporto annuale al governo federale. Quell’anno, il rapporto asseriva falsamente che i dirigenti della Chiesa stavano ancora pubblicamente incoraggiando e autorizzando il matrimonio plurimo. Dichiarava anche, senza alcuna prova, che nell’ultimo anno nello Utah erano stati celebrati quarantuno matrimoni plurimi.

Al fine di eliminare il matrimonio plurimo una volta per tutte, la Commissione raccomandava che il Congresso approvasse delle leggi ancora più dure contro la Chiesa.28

Il rapporto fece infuriare Wilford. Sebbene non avesse rilasciato alcuna dichiarazione pubblica in merito alla situazione della pratica del matrimonio plurimo nella Chiesa, aveva già stabilito che non si dovessero celebrare altri matrimoni plurimi nello Utah o in qualsiasi altro luogo degli Stati Uniti. Inoltre, nel corso dell’anno appena trascorso, aveva fatto molto per scoraggiare i nuovi matrimoni plurimi, nonostante il rapporto affermasse l’opposto.29

Il 22 settembre, Wilford si incontrò con i suoi consiglieri nella Gardo House, la residenza ufficiale del presidente della Chiesa a Salt Lake City, per parlare di cosa fare in merito al rapporto. George Q. Cannon propose di smentirne le dichiarazioni. Egli disse: “Forse, come dirigenti della Chiesa, non abbiamo mai avuto possibilità migliore di rendere pubblica in modo ufficiale la nostra opinione riguardo alla dottrina e alla legge che è stata emanata”30.

Dopo le riunioni di quel giorno, Wilford pregò per ricevere guida. Se la Chiesa non avesse smesso di celebrare matrimoni plurimi, il governo avrebbe continuato a promulgare delle leggi contro i santi, la maggioranza dei quali neppure praticava il principio. A Sion avrebbero regnato caos e confusione. Altri uomini sarebbero andati in prigione e il governo avrebbe confiscato i templi. Da quando erano stati dedicati i nuovi templi, i santi avevano celebrato centinaia di migliaia di ordinanze per i morti. Se il governo avesse sequestrato questi edifici, a quanti figli di Dio, vivi e morti, sarebbe stato impedito di ricevere le sacre ordinanze del Vangelo?31

Il giorno dopo, Wilford disse a George che credeva che fosse suo dovere, come presidente della Chiesa, emettere un manifesto, ovvero una dichiarazione pubblica, alla stampa. Poi fece entrare il suo segretario in una stanza privata mentre George aspettava fuori.

Nel frattempo, l’apostolo Franklin Richards arrivò alla Gardo House in cerca del profeta. George gli disse che Wilford era occupato e che non poteva essere disturbato. Poco dopo, Wilford uscì dalla stanza privata con la dichiarazione che aveva appena dettato. La sua agitazione causata dal rapporto della Commissione dello Utah era sparita. Ora il suo volto sembrava splendere e lui appariva felice e contento.

Wilford lesse il documento ad alta voce. La dichiarazione negava che nell’ultimo anno fossero stati celebrati nuovi matrimoni plurimi e affermava la disponibilità della Chiesa a lavorare con il governo. Essa dichiarava: “Dal momento che la nazione ha approvato una legge che vieta il matrimonio plurimo, ci sentiamo di dover obbedire a quella legge e rimettiamo la cosa nelle mani di Dio”.

“Sento che porterà dei buoni risultati”, disse George. Non riteneva che la dichiarazione fosse pronta per la pubblicazione, ma le idee che conteneva erano giuste.32

Il giorno dopo, la Prima Presidenza chiese a tre scrittori di talento — il segretario George Reynolds, il direttore di un giornale Charles Penrose, e il consigliere nel Vescovato Presiedente John Winder — di perfezionare il linguaggio della dichiarazione e di prepararla per la pubblicazione. Wilford quindi presentò il documento riveduto agli apostoli Franklin Richards, Moses Thatcher e Marriner Merrill, i quali raccomandarono di apportare ulteriori migliorie.

Una volta riveduto, il cosiddetto Manifesto dichiarò la fine dei futuri matrimoni plurimi e sottolineò la decisione di Wilford di obbedire alle leggi del paese e di persuadere i santi a fare lo stesso.

“Noi non insegniamo la poligamia o il matrimonio plurimo, né permettiamo a chicchessia di praticarla”, si leggeva in un punto. “Io dichiaro qui che è mia intenzione sottomettermi a queste leggi e usare la mia influenza presso i membri della Chiesa alla quale presiedo perché facciano altrettanto”33.

Gli apostoli presenti approvarono il documento e lo inviarono per telegramma alla stampa.34

“L’intera questione è stata fatta su richiesta del presidente Woodruff”, annotò quel giorno George Q. Cannon nel suo diario. “Egli ha dichiarato che il Signore gli aveva reso noto che questo era il suo dovere e che aveva sentito con perfetta chiarezza nella sua mente che era la cosa giusta da fare”35.

Anche Wilford rifletté sul Manifesto nel suo diario: “Sono arrivato a un punto della mia vita come presidente della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni in cui mi trovo nella necessità di agire per la salvezza materiale della Chiesa”.36

Egli sapeva che il governo aveva preso una posizione decisa contro il matrimonio plurimo. Wilford quindi aveva pregato e aveva ricevuto ispirazione dallo Spirito, e il Signore aveva rivelato la Sua volontà per i santi.