La nostra nuova missione nella vita
Dopo il pensionamento io e mia moglie vivevamo una vita agiata. Ci piaceva lavorare nel tempio, adempiere agli incarichi nel rione e nel palo, andare a trovare i nostri figli, nipoti e le madri, che erano rimaste vedove. Sembrava che le cose non potessero andare meglio.
Qualcosa iniziò, però, ad agitarci. Era giunto il tempo di prendere seriamente in considerazione di svolgere una missione a tempo pieno e noi lo sapevamo. Decidemmo subito di servire ma sentimmo di dover fare un elenco delle cose che dovevamo sistemare prima di inoltrare la nostra domanda per la missione. Stilammo meticolosamente l’elenco e iniziammo a eliminare punto dopo punto.
Trascorsero due mesi e scoprimmo che la nostra lista delle cose da fare si era solamente allungata. «Non c’è problema», pensammo. «Ci sforzeremo di più nel ridurla». Ma non accadde. Ci rendemmo conto che sebbene avessimo ancora gli stimoli di svolgere una missione, la nostra paura dell’ignoto faceva sì che aggiungessimo più compiti di quelli che potessimo completare.
Una mattina, poco dopo aver rivisto il nostro elenco delle cose da fare, stavo studiando Gesù il Cristo dell’anziano James E. Talmage (1862–1933). Un passaggio mi ha toccato profondamente: «Le scuse sono facili da trovare; esse crescono tanto rapidamente e abbondantemente come la malerba lungo i cigli della strada. Quando il Samaritano si avvicinò e vide il misero stato in cui si trovava il ferito, non trovò alcuna scusa perché non ne voleva trovare» (322).
Con grande emozione mi affrettai in cucina e condivisi queste parole con mia moglie. Anche su di lei ebbero un profondo impatto. Non c’era dubbio sul nostro passo successivo.
Gettammo immediatamente il nostro elenco delle cose da fare, che ora chiamavamo ridacchiando l’elenco delle scuse, e iniziammo il processo necessario per essere chiamati quali missionari.
Una volta fatto questo, le cose si susseguirono velocemente e presto ci trovammo a godere ancora di più la nostra vita nella Missione di Singapore. Il nostro incarico era di addestrare i nuovi dirigenti nei rami della Chiesa, prima nello Sri Lanka e poi in Malaysia. Scoprimmo che la nostra famiglia a casa poteva fare a meno di noi senza problemi e ci rendemmo ben presto conto di quanto fossimo necessari come missionari più anziani.
Due sere prima del ritorno dalla nostra missione, i fedeli di due rami, con i quali avevamo lavorato in Malaysia, ci invitarono a quella che risultò poi una festa d’addio a sorpresa. Non scorderemo mai quando siamo usciti dalla casa di riunione della Chiesa e siamo stati circondati dai fedeli locali, che tenevano in mano una lanterna cinese fatta da loro e ci cantavano in cinese: «Fino al giorno in cui ci rivedrem» ( Inni , 94). Tuttora non riesco a parlare di questa esperienza senza piangere. Siamo felici di non aver lasciato che il nostro elenco delle scuse, i nostri timori, ci tenessero lontani da un’esperienza senza prezzo.
Robert A. Hague fa parte del Rione di Yakima 2, Palo di Selah, Washington.