Relazione sul ministero
«Il marito che domina la moglie, che la sminuisce e la umilia … non soltanto ferisce lei, ma sminuisce anche se stesso».
Fratelli, questa è stata un’eccellente riunione. Sono state dette molte cose degne di essere ricordate e messe in pratica. Approvo e raccomando ciò che hanno detto i Fratelli. Spero che ogni uomo e ragazzo, ovunque possa trovarsi, lasci questa riunione stasera con un più grande desiderio e una più ferma determinazione di vivere in modo più degno del divino sacerdozio che ognuno di noi detiene.
Vi parlo in maniera un po’ personale, non per vantarmi, ma a mo’ di testimonianza e con spirito di gratitudine.
Questa conferenza segna per me due anniversari. Trent’anni fa, alla conferenza generale di ottobre, fui sostenuto come membro del Consiglio dei Dodici Apostoli. Dieci anni fa fui sostenuto come consigliere della Prima Presidenza. Sono profondamente grato a voi e alle vostre famiglie per il sostegno che mi danno le vostre mani, il vostro cuore e le vostre preghiere. Grazie. Confesso che non mi sono mai sentito all’altezza di queste chiamate tanto impegnative. Immagino che ogni uomo e ogni donna di questa chiesa provi questi sentimenti, in qualsiasi ufficio o chiamata gli possa essere chiesto di servire.
Pochi giorni fa ho ricevuto una lettera da mio nipote che si trova in missione in Polonia. Sta lavorando con l’anziano Dennis B. Neuenschwander in una regione in cui cercano di aprire la strada al proselitismo. E’ una cosa difficile. Egli scrive: «Sono presidente di un ramo di quattro membri, e mi sento tanto inadeguato».
E’ superfluo ricordarvi, anche a voi che siete diaconi, che è una cosa che incute timore essere rivestiti del santo sacerdozio e avere la responsabilità, grande o piccola, di assistere Dio, nostro Padre Eterno, nel fare avverare l’immortalità e la vita eterna dei Suoi figli e figlie di ogni generazione. Nessuno di noi può comprendere la vastità e il pieno significato di questa responsabilità. Ma anche con la nostra limitata comprensione, sappiamo di dover essere fedeli e diligenti nello svolgere il nostro dovere.
Quando facciamo questo, accadono cose straordinarie e miracolose. Vi ricordo i ricchi e meravigliosi frutti delle vostre fatiche ottenuti lungo un periodo di molti anni. Esito a usare le statistiche, ma questi sono i risultati del vostro servizio e delle immense benedizioni del Signore.
Durante i trent’anni passati da quando fui ordinato Apostolo, il numero dei membri della Chiesa è cresciuto da 1.800.000 all’attuale stima di 8.040.000, ossia ha registrato un aumento del 441 per cento.
Il numero dei pali è cresciuto da 345 a 1.817. E questo rappresenta un aumento del 527 per cento, anche se, ammettiamolo pure, stiamo creando pali più piccoli e più numerosi per aumentare l’efficienza amministrativa. Non di meno nel corso del tempo in cui molti di noi hanno prestato servizio, abbiamo assistito a un miracolo.
Ho veduto, durante il periodo del mio apostolato, il corpo dei missionari a tempo pieno crescere da 10.000 a circa 45.000, con un aumento del 425 per cento, con un proporzionale aumento delle missioni da 67 a 267, ossia con un aumento del 398 per cento.
Ebbene, queste sono statistiche non particolarmente interessanti sotto forma di grafico, ma immensamente importanti per milioni di figli e figlie di Dio, il nostro Padre Eterno, che vivono in 135 nazioni e territori sparsi su tutta la terra, nei quali la Chiesa è stata stabilita.
Quando penso a queste cose, sento di dovermi alzare in piedi e gridare alleluja. Ma, più giustamente, sento di dovermi inginocchiare e dire con umiltà che siano rese grazie a Dio e al Suo beneamato Figliuolo, nostro Redentore, per il progresso di questa Loro opera; e siano rese grazie ai miei fratelli e sorelle, giovani e vecchi, a voi che vi siete mostrati fedeli e diligenti nello svolgere il vostro dovere per far avverare tutto questo. E’ stato bello vedere tutto ciò.
Ma durante questi dieci anni in cui ho servito nella Presidenza, ho anche veduto molto dolore. E’ proprio riguardo a questo che desidero dire qualche altra parola. Ormai da dieci anni prendo parte al compito di sedere in giudizio per determinare la dignità di coloro che chiedono di rientrare nella Chiesa dopo essere stati scomunicati. In ogni caso vi è stata una grave violazione delle norme di condotta della Chiesa. Nella maggior parte dei casi era stato commesso adulterio e, nella maggioranza di questi casi, i mariti erano i colpevoli. Un’azione disciplinare era stata presa nei loro confronti. Col passare dei mesi essi desideravano riottenere ciò che avevano avuto in precedenza. E la disposizione al pentimento era entrata nel loro cuore.
Come mi disse uno di questi uomini: «In realtà non avevo mai compreso né apprezzato il dono dello Spirito Santo sino a quando mi fu tolto».
Durante questi dieci anni, in tre o quattro occasioni, ho parlato alle donne della Chiesa. In risposta ai discorsi che ho tenuto ho ricevuto un gran numero di lettere. Ne ho conservate alcune in un fascicolo intitolato: «Donne infelici».
Queste lettere provengono da luoghi molto diversi. Ma sono tutte scritte sullo stesso tono. Voglio leggervi il brano di una di esse, che ho ricevuto appena la settimana scorsa. L’autrice mi ha concesso il permesso di farlo. Non farò nomi.
Ella dice: «Conobbi mio marito quando frequentava il primo anno di università. Proveniva da una famiglia attiva, con molti anni di servizio nella Chiesa; era tanto entusiasta di andare in missione. Pensavo che entrambi considerassimo il Vangelo come la cosa più importante in questa vita. A entrambi piaceva la musica e la natura e davamo molta importanza allo studio. Uscimmo insieme per alcuni mesi, ci innamorammo presto e ci scrivemmo spesso durante il tempo in cui egli svolse onorevolmente la missione. Quando tornò a casa riprese gli studi e ci sposammo nel Tempio di Salt Lake. Seguimmo il consiglio dei dirigenti della Chiesa e subito mettemmo su famiglia. Avevo frequentato l’università grazie a una borsa di studio per il profitto, ma quando mi trovai incinta e ammalata lasciai gli studi per dedicare il mio tempo e le mie energie a mio marito e a mio figlio.
Per i diciotto anni che seguirono sostenni mio marito mentre egli ultimava gli studi, faceva qualche esperienza di lavoro e dava inizio a un’attività in proprio. Entrambi occupavamo posizioni direttive nella Chiesa e nella collettività. Nacquero cinque bei bambini ai quali insegnai il Vangelo, insegnai a lavorare, a servire, a comunicare e a suonare il piano. Facevo il pane, inscatolavo pesche, mele, pomodori, cucivo vestiti e trapunte, pulivo la casa, curavo l’orto e il giardino. Per molti aspetti mi sembrava che fossimo una famiglia ideale. Il nostro rapporto a volte era dolce, a volte difficile. Le cose non erano mai perfette, perché non sono una donna perfetta, e lui non è un uomo perfetto, ma molte cose andavano bene. Non mi aspettavo la perfezione, ma continuavo a sforzarmi di raggiungerla.
Poi mi crollò il mondo addosso. Circa un anno fa egli giunse alla conclusione che non mi aveva mai amato e che il nostro matrimonio era stato uno sbaglio sin dal principio. Era convinto che nel nostro rapporto per lui non ci fosse più nulla. Chiese il divorzio e se ne andò. ‹Aspetta›, continuavo a dire. ‹Oh, no. Fermati! Non lo fare. Perché te ne vai? Che cosa c’è che non va? Ti prego, parlami. Guarda i nostri figli. Cosa accadrà di tutti i nostri sogni? Ricorda le nostre alleanze. No, no! Il divorzio non è una soluzione!›. Non voleva ascoltarmi. Credevo che ne sarei morta.
Ora sono una donna che deve allevare i figli da sola. Quale immenso fardello di dolore, di sofferenza e di solitudine sta dietro questa definizione! Spiega tanti traumi e tanta ira nei miei figli adolescenti. Spiega tante lacrime delle mie bambine. Spiega tante notti insonni, e tante richieste e necessità non soddisfatte in famiglia. Perché mi trovo in questa situazione? Quali scelte sbagliate ho fatto? Come potrò mai finire gli studi? Come potrò arrivare alla fine di questa settimana? Dov’è mio marito? Dov’è il padre dei miei figli? Mi unisco alla categoria delle donne stanche, abbandonate dai mariti. Non ho denaro, non ho lavoro. Ho dei figli a cui badare, delle bollette da pagare e ben poca speranza».
Io non so se il suo ex-marito si trova qui, da qualche parte. Se mi ascolta, forse riceverò da lui una lettera in cui giustifica ciò che ha fatto. So che vi sono sempre due lati di ogni medaglia. Ma, non so perché, non riesco a capire come un uomo, che detiene il santo sacerdozio e che ha stipulato sacre e impegnative alleanze dinanzi al Signore, può giustificare l’abbandono delle sue responsabilità verso la donna che è sua moglie da diciotto anni e i cinque figli che esistono per causa sua e che da lui hanno preso carne, ossa e retaggio.
Non è un problema nuovo. Suppongo che sia antico quanto la razza umana. Sicuramente esisteva tra i Nefiti. Giacobbe, figlio di Nefi, parlando come profeta al suo popolo, dichiarò: «Poiché sappiate che Io, il Signore, ho visto il dolore e udito il pianto delle figlie del mio popolo nella terra di Gerusalemme, sì, e in tutte le terre del mio popolo, per la malvagità e le perversità dei loro mariti.
… Avete spezzato il cuore delle vostre tenere spose, e perduta la fiducia dei vostri figli, per i vostri cattivi esempi in loro presenza; ed i singhiozzi dei loro cuori ascendono a Dio contro di voi… » (Giacobbe 2:31, 35).
Permettetemi di leggervi parte di un’altra lettera. Dice la donna: «Mio marito è un brav’uomo che ha molte straordinarie qualità e un buon carattere, ma sotto questi attributi c’è una forte vena di autoritarismo… Il suo carattere volubile esplode tanto spesso da ricordarmi tutta la potenziale bassezza di cui è capace.
Presidente Hinckley … per favore, ricordi ai fratelli che i maltrattamenti fisici e verbali inferti alle donne sono una maniera Imperdonabile, mai accettabile e codarda de risolvere le divergenze de opinione, specialmente e particolarmente disprezzabile se il colpevole è un detentore del sacerdozio».
Ebbene, ritengo che la maggior parte dei matrimoni nella Chiesa sia felice, che sia i mariti che le mogli provino in questi matrimoni un senso di sicurezza e di affetto, di dipendenza reciproca, e condividano equamente i fardelli. Sono convinto che i figli che crescono in queste famiglie, almeno nella vasta maggioranza di esse, crescano con un senso di pace e di sicurezza, sapendo di essere apprezzati ed amati da entrambi i loro genitori, che evidentemente si amano l’un l’altra. Ma sono anche convinto, fratelli miei, che vi sono abbastanza matrimoni di diversa natura che giustificano ciò che dico.
Chi può calcolare le ferite inflitte, profonde e dolorose, causate da parole dure e cattive, dette con ira? Quant’è penosa la vita di un uomo che, forte per molti aspetti, perde il controllo di sé quando cose di poco conto, di solito senza importanza tangibile, sconvolgono la sua equanimità! In ogni matrimonio, naturalmente, vi sono ogni tanto delle divergenze di opinioni. Ma non trovo giustificazioni all’ira che esplode alla minima provocazione.
Dice l’autore dei Proverbi: «L’ira è crudele e la collera impetuosa» (Proverbi 27:4).
Un carattere violento è cosa terribile e logorante. E il dramma è che non porta ad alcun bene, nutre soltanto il male con il risentimento, la ribellione e il dolore. Voglio chiedere a ogni uomo o ragazzo che mi sta ascoltando, che ha difficoltà a controllare le parole, di implorare il Signore di dargli la forza necessaria per superare tale debolezza, per chiedere scusa a coloro che ha offeso, per poter trovare in sé la forza di controllare le sue parole.
Voglio suggerire ai ragazzi qui presenti, di sorvegliare il loro umore, ora che vivono gli anni formativi della loro vita. Come vi ha ricordato fratello Haight, questa è la stagione in cui si può acquisire il potere e la capacità di autodisciplinarsi. Potete credere che abbandonarsi all’ira, bestemmiare e profanare il nome del Signore sono cose da uomini. Queste non sono cose da uomini; sono soltanto segni di debolezza. L’ira non è un’espressione di forza. E’ il segno della propria incapacità di dominare i pensieri, le parole e le emozioni. Naturalmente è facile adirarsi. Quando la debolezza dell’ira ha la meglio, la forza della ragione scompare. Coltivate in voi il grande potere dell’autodisciplina.
Passo ora a un altro elemento negativo che affligge troppi matrimoni. Trovo interessante che due dei dieci comandamenti trattino di questo argomento: «Non commettere adulterio» e «Non concupire» (Esodo 20:11–17). Mi dicono che Ted Koppel, moderatore del programma televisivo della ABC «Nightline», ha dichiarato quanto segue a un gruppo di studenti dell’Università Duke, riguardo agli slogan proposti per ridurre l’uso della droga e l’immoralità: «Noi siamo veramente convinti che gli slogan ci salveranno… Ma la soluzione è dire no! Non perché non è elegante o intelligente o perché si può finire in carcere o morire di AIDS, ma dire no perché è sbagliato, perché la specie umana ha dedicato cinquemila anni a cercare di trascinarsi fuori dal fango primordiale per cercare la verità e delle regole morali assolute. Nella sua forma più pura la verità non è un educato colpetto sulla spalla. E’ un furente rimprovero. Ciò che Mosè portò giù dal Sinai non erano i Dieci Suggerimenti».
Pensateci su per un momento. Ciò che Mosè portò giù dal monte erano i Dieci Comandamenti, incisi dal dito di Geova sulle tavole di pietra, per la salvezza, la sicurezza e la felicità dei figliuoli d’Israele e per tutte le generazioni che li avrebbero seguiti.
Troppi, troppi uomini, lasciando la moglie a casa al mattino e andando al lavoro, dove trovano delle ragazze vestite elegantemente e ben truccate, pensano di essere anche loro giovani, belli e irresistibili. Si lamentano che le loro mogli non hanno lo stesso aspetto che avevano vent’anni prima, quando le hanno sposate. Al che io dico: quale donna lo avrebbe, dopo essere vissuta con voi per vent’anni?
Il dramma è che alcuni uomini sono schiavi della propria stoltezza e della propria debolezza. Gettano al vento le alleanze più sacre e solenni, stipulate nella casa del Signore e suggellate tramite l’autorità del santo sacerdozio. Mettono da parte le mogli che sono rimaste fedeli, che li hanno amati e curati, che hanno lottato insieme con loro in tempi di povertà, soltanto per essere scartate in tempi di benessere. Hanno lasciato senza padre i loro figli. Hanno evitato con ogni cavillo il pagamento degli alimenti e delle spese di mantenimento dei figli stabiliti dai tribunali.
Sono troppo duro o pessimista? Sì, devo esserlo, dopo che per tanto tempo ho avuto a che fare con casi simili, uno dopo l’altro. Paolo scrisse: «Che se uno non provvede ai suoi, e principalmente a quelli di casa sua, ha rinnegato la fede, ed è peggiore dell’incredulo» (1 Timoteo 5:8). Nella stessa epistola egli dice a Timoteo: «Conservati puro» (v. 22).
Ora ammetto che possano esservi pochi casi in cui le condizioni esistenti in un matrimonio sono del tutto intollerabili, ma questi casi sono davvero la minoranza. E anche in questi casi, quando un matrimonio è stato contratto e i figli sono stati messi al mondo, c’è una responsabilità, che c’impegna e ci chiama a rendere conto dinanzi a Dio, di provvedere a coloro di cui come padri siamo responsabili.
La lamentela di un marito, dopo diciott’anni di matrimonio e cinque figli, che non ama più sua moglie è, a mio avviso, una misera scusa per violare le alleanze stipulate dinanzi a Dio e anche per evadere le responsabilità che sono la forza stessa della società di cui facciamo parte. La determinazione della colpa, con il conseguente divorzio, è di solito preceduta da un lungo periodo in cui piccoli errori vengono rinfacciati con linguaggio duro e iroso, in cui le piccole divergenze si trasformano in conflitti di proporzioni monumentali. Sono convinto che quanto più la moglie è trattata crudelmente, tanto meno attraente ella diventa. Perde l’orgoglio del proprio aspetto. Sviluppa un senso di futilità. Certo che è evidente.
Il marito che domina la moglie, che la sminuisce e la umilia … non soltanto ferisce lei, ma sminuisce anche se stesso. E in molti casi egli stabilisce uno schema di comportamento simile per i suoi figli.
Fratelli miei, voi a cui è stato conferito il sacerdozio di Dio, sapete, come so io, che non c’è felicità duratura, che non c’è pace duratura nel cuore, né tranquillità nella casa, senza la compagnia di una brava donna. Le nostre mogli non sono inferiori a noi.
Alcuni uomini, che evidentemente non sanno meritare rispetto per il loro modo di vivere, usano come giustificazione delle loro azioni la dichiarazione che a Eva fu detto che Adamo avrebbe dominato su di lei. Quanta tristezza, quanta infelicità, quanto dolore è stato causato durante i secoli da uomini deboli, che hanno usato questo passo come l’approvazione data dalle Scritture a un comportamento atroce. Essi non si rendono conto che lo stesso passo spiega che Eva fu data come aiuto a Adamo. La verità è che essi stavano fianco a fianco nel giardino. Furono espulsi insieme dal giardino e insieme lavorarono, fianco a fianco, per guadagnarsi il pane con il sudore della fronte.
Sì, fratelli, so che ho parlato di una minoranza. Ma la portata del dramma che affligge questa minoranza, e particolarmente le vittime di questa minoranza, mi ha spinto a dire ciò che ho detto. C’è un vecchio adagio che dice: «Quando ci vuole … ».
Ciò che ho detto l’ho detto con il desiderio di essere di aiuto e, in alcuni casi, con un senso di rimprovero, seguito da un più grande affetto verso coloro che posso aver rimproverato.
Quanto è bello il matrimonio di due giovani, che iniziano la loro vita in comune inginocchiati all’altare della casa del Signore, che impegnano il loro amore e la loro lealtà l’uno per l’altra, per il tempo e per tutta l’eternità! Quando i figli entrano in una simile casa sono nutriti, curati, amati e sereni perché sanno che il loro padre ama la loro madre. In tali ambienti si trovano pace, forza e sicurezza. Osservando il loro padre sviluppano il rispetto per la donna. Vengono insegnati loro l’autocontrollo e l’autodisciplina, che danno loro la forza di evitare future tragedie.
Gli anni passano. I figli alla fine lasciano la casa paterna ad uno ad uno. E il padre e la madre si trovano di nuovo soli. Ma essi hanno la compagnia reciproca, possono parlare, contare l’uno sull’altra, sostenersi, incoraggiarsi, aiutarsi. E nell’autunno della vita possono guardarsi indietro con soddisfazione e gioia. Durante tutti quegli anni vi è stata lealtà reciproca. Vi sono stati rispetto e cortesia. Ora c’è una certa tenerezza, una dolcezza, una affezione che appartengono a un rapporto santificato. Si rendono conto che la morte può venire ogni momento, di solito prima per uno solo di loro, il che comporta un periodo di separazione, breve o lungo. Ma essi sanno anche che, poiché il loro legame è stato suggellato tramite l’autorità dell’eterno sacerdozio ed essi sono vissuti in modo degno delle benedizioni, vi sarà per loro una dolce e sicura riunione.
Fratelli, questa è la vita che il Padre nei cieli vuole che viviamo. Questa è la via del Signore. Egli lo ha indicato. I Suoi profeti ne hanno parlato.
Richiede sforzo. Richiede autocontrollo. Richiede altruismo. Richiede la vera essenza dell’amore, che è un’ansiosa preoccupazione per il benessere e la felicità del proprio coniuge. Non posso augurare nulla di meglio di questo a tutti voi, e prego che questa possa essere la sorte di ognuno di voi. Nel nome di Gesù Cristo. Amen.